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Nonostante sia innegabile che l’inflazione abbia superato il proprio picco, complice anche la riduzione del costo dell’energia, la sua componente “core” continua a rimanere particolarmente elevata. Questa è la parte più sensibile alle dinamiche salariali e pertanto, se il lato dell’offerta sul mercato del lavoro continua a rimanere così forte è molto complicato che si possa assistere ad una riduzione convinta della crescita dei prezzi per il segmento “core”. Se è relativamente semplice far scendere l’inflazione da livelli molto alti a livelli più contenuti, la parte più complessa è “l’ultimo miglio” del processo disinflazionistico, portando ad esempio la crescita dei prezzi dal 3% al 2%.
Per fare questo, una correzione del mercato del lavoro che elimini la parte più sticky della wage-related core inflation risulta imprescindibile: la curva di Phillips non è più piatta come negli anni del Quantitative Easing, no labour market pain, no wage inflation gain. Un mercato del lavoro come quello americano, con un tasso di disoccupazione ai minimi da 54 anni sembra remare nella direzione contraria ed ostacolare quindi un aggiustamento rapido dello squilibrio inflazionistico.
Storicamente, quando l’inflazione cresce così tanto come accaduto nelle economie avanzate negli ultimi mesi, sono necessari anni perché ritorni a livelli accettabili. Negli ultimi quarant’anni ci sono voluti in media 10 anni perché l’inflazione tornasse al 2% dopo aver superato un livello del 5%. Quello su cui stanno scommettendo oggi i mercati, ossia una disinflazione rapidissima partendo da livelli così significativi di fatto non è mai avvenuto nella storia economica recente e soprattutto senza che si verificasse una profonda fase di recessione.
La politica fiscale nel processo disinflazionisico
Un altro punto da non sottovalutare quando si tenta di prevedere la velocità del processo disinflazionistico è il contributo della politica fiscale. Se questa era estremamente restrittiva nello scorso decennio, a partire dal 2020, con l’eccezionale sostegno all’economia fornito dai governi durante la pandemia, essa è diventata particolarmente accomodante e questa tendenza non si è ancora invertita. Con l’eccezione di Norvegia ed Australia, tutte le economie del G10 spendono più di quanto facessero prima del Covid in termini di quota sul PIL, anche se si esclude dalla spesa il servizio del debito pubblico. Per il momento quindi, le politiche fiscali contribuiscono a fomentare la salita dei prezzi, elidendo in alcuni casi gli effetti della restrizione monetaria: il vero rischio è quindi che la politica fiscale sia oggi pro-ciclica, anziché assolvere al suo ruolo anticiclico.
La riapertura della Cina nell’economia mondiale
Un altro tema-chiave riguarda la Cina: se la riapertura del gigante asiatico è sicuramente positiva per sostenere l’economia mondiale, risulta molto difficile pensare che la normalizzazione di una domanda congelata da tre anni non abbia alcun impatto sulle dinamiche d’inflazione dei propri partner commerciali.
Nonostante l’azione restrittiva delle principali banche centrali, il totale della liquidità immessa nel sistema finanziario globale è cresciuta da inizio anno di circa un trilione di dollari: la Bank of Japan ha aggiunto al sistema l’equivalente di 200 miliardi di dollari per stabilizzare i livelli di rendimento dei propri titoli di Stato, la Banca Popolare Cinese ha incrementato di 400 miliardi di dollari il proprio bilancio e in Europa, i governi hanno iniziato a ritirare i propri depositi presso la BCE immettendo di fatto circa 300 miliardi di euro di liquidità sul mercato.
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